Per l'Indipendenza d'Italia
Il 12 marzo 1849, a mezzogiorno, il maggiore del Genio Raffaele Cadorna, segretario generale al Ministero della Guerra del Regno di Sardegna, consegnava nel palazzo
reale di Milano al maresciallo Johann Joseph Radetzkj, governatore del Lombardo-Veneto, la lettera di denuncia dell'armistizio stipulato tra Piemonte e Austria il 9 agosto del 1848,
a conclusione della fase iniziale di quella che passerà alla Storia come "prima guerra d'Indipendenza italiana".
I piani di guerra sardi per la nuova campagna, che avrebbe dovuto far dimenticare gli insuccessi dell'anno precedente, si fondavano sul presupposto che gli austriaci non solo non
avrebbero varcato la linea del Ticino (per evitare un intervento, si diceva, della Francia di Luigi Napoleone) ma che anzi si sarebbero ritirati senza combattere forse
addirittura dietro il Mincio. Il nuovo comandante in capo dell'esercito sardo, il polacco Alberto Chrzanowsky, progettò così una manovra su Milano con cinque
divisioni (che avrebbero attraversato il Ticino a Boffalora), mentre l'attenzione del nemico sarebbe stata attirata da una brigata dell'ala destra che avrebbe accennato un
movimento lungo la riva meridionale del Po in direzione di Piacenza.
A protezione del centro del dispositivo piemontese, davanti a Pavia e al suo ponte in pietra sul Ticino, Chrzanowsky
ritenne sufficiente schierare la 5a Divisione lombarda, comandata dal generale Gerolamo Ramorino, veterano delle guerre napoleoniche e fervente mazziniano. Se attaccato da preponderanti
forze austriache, egli avrebbe dovuto ripiegare lentamente verso Mortara o ripiegare al di là del Po, tagliando i ponti dietro di sé per dare tempo alle restanti divisioni sarde
di accorrere ad affrontare il nemico. L'ipotesi era comunque considerata altamente improbabile dal Comando Supremo piemontese.
Per l'Imperatore d'Austria
Il piano d'operazioni di Radetzky, al contrario di quanto riteneva lo Chrzanowsky, era invece tutto incentrato sull'offensiva. Questa avrebbe avuto inizio proprio da Pavia,
con l'attraversamento in forze del Ticino e una veloce marcia verso Gropello, per tagliare le comunicazioni del grosso dell'esercito sardo con la capitale, Torino, e batterlo subito,
in una decisiva battaglia campale.
A tal fine, il vecchio feldmaresciallo boemo ordinò un ripiegamento generale delle sue truppe verso est, lasciando solo alcuni
reparti lungo la riva sinistra del Ticino a proteggere questo movimento.
Le forze schierate
Il 18 marzo, l'armata austriaca si stendeva su una linea che andava da Binasco, per Landriano e Sant'Angelo, fino a Codogno, con il fronte però rivolto verso
Pavia, nelle cui vicinanze, la sera del 19 marzo 1849, Radetzky aveva ormai fatto confluire la maggior parte delle sue forze. Nello stesso momento, completamente all'oscuro di quanto
stava avvenendo, il generale Ramorino trasferiva la maggior parte della sua divisione verso Stradella, per sventare una supposta minaccia austriaca proveniente da Piacenza!
Poco dopo il mezzogiorno del 20 marzo 1849, le truppe del re di Sardegna passarono il Ticino a Boffalora e occuparono Magenta, senza incontrare resistenza da parte austriaca.
Quasi nello stesso momento, il maresciallo Radetzky attraversava a Pavia il confine con gli stati sardi.
Già all'alba di quel giorno, gettati due ponti di barche a valle
di quello in pietra sul Ticino, le truppe austriache si erano messe in movimento, ammassandosi sulla grande isola Gravellone, creata dal braccio secondario del fiume a formare una sorta
di grande cuneo all'interno del territorio piemontese. Di questi movimenti, il generale Marcello Gianotti, comandante della seconda brigata della Divisione Lombarda, schierata nel
Siccomario, davanti a Pavia, aveva nella notte del 20 marzo tempestivamente informato il Ramorino, esprimendo una certa preoccupazione poiché, scriveva, «il numero della truppa
nostra è piccolo».
In effetti, i reparti immediatamente agli ordini del Gianotti si limitavano al VI Battaglione Bersaglieri del maggiore Luciano Manara (con due compagnie a San Martino, una alla Cava e
una a Carbonara), e al 21° Reggimento di Linea (con il I battaglione a Zerbolò, il II e il III a Mezzana Corti). Il reggimento Cavalleggeri Lombardi si trovava ancora a Sannazzaro,
mentre il resto della 5a Divisione Lombarda era schierato sulla destra del Po, da Casatisma, sede del quartier generale, a Casteggio, completamente inutilizzabile dunque per arrestare
l'avanzata nemica.
Contro queste forze, ammontanti complessivamente a poco più di tremila uomini, Radetzky mise in movimento, allo scoccare del mezzogiorno del 20 marzo, la divisione del tenente maresciallo
arciduca Alberto, appartenente al II Corpo d'Armata del feldmaresciallo barone d'Aspre e composta dalle brigate Kolowrat e Stadion, per un totale di circa 10.000 uomini.
Tre colonne avrebbero dovuto irrompere contemporaneamente in territorio piemontese: sulla destra, la brigata Kolowrat avrebbe attraversato il Gravellone a monte del posto di confine, contrassegnato
da un ponte su quel canale e dall'edificio del Dazio, al centro, due battaglioni del reggimento Giulay, due squadroni di ussari e una batteria da 12 libbre avrebbero fatto irruzione utilizzando
il ponte stesso, mentre sulla sinistra un battaglione di cacciatori, due di fanteria e una batteria, tutti agli ordini del maggior generale Stadion, dovevano passare il Gravellone alla località
Acqua Negra e prendere sul fianco la linea piemontese.
La Battaglia
I bersaglieri di Manara, schierati davanti al villaggio di San Martino, risposero prontamente al fuoco degli austriaci ma dovettero presto ripiegare davanti all'enorme
superiorità numerica del nemico e ritirarsi, sempre combattendo, fino alla Cava. Qui, l'intero battaglione bersaglieri si schierò a difesa. Dopo circa un'ora di accanita
resistenza, il generale Gianotti fu costretto però a ordinare l'abbandono anche di questa posizione, minacciata ormai di accerchiamento.
La linea piemontese si arrestò allora presso la Cascina Mandella, rinforzata dai due battaglioni del 21° giunti in fretta da Mezzana Corti e dal piccolo battaglione stu-denti
dei colonnello Pasotti, inviato quella mattina stessa dal Ramorino. Ma la marea austriaca era inarrestabile. Verso le 17.30, minacciati di essere aggirati sul fianco destro e
tagliati fuori dal Po, gli italiani furono costretti ad abbandonare le loro posizioni e a ritirarsi oltre il fiume, bruciando dietro di sé il ponte di Mezzana Corti. Le esauste
truppe del Gianotti si schierarono sulla riva destra, fronteggiate a qualche centinaio di metri dalla brigata Lichtenstein del IV Corpo austriaco, che si limitò a scambiare
con loro solo qualche colpo di "racchetta". L'azione, durata più di sei ore, era costata in tutto quattro morti e quindici feriti ai piemontesi, nove feriti e dodici tra prigionieri
e dispersi agli austriaci.
Sfondato così, nonostante la valorosa resistenza, il centro dello schieramento nemico, il maresciallo Radetzky poté muovere senza incontrare ostacoli sino a Mortara e a Vigevano,
respingere le avanguardie piemontesi attestate in queste località e battere quindi definitivamente, il 23 marzo 1849, l'esercito di Carlo Alberto presso Novara.