... il dialetto - varie forme                                             Cava Manara
 
 

Derivazioni e sopravvivenze - Il Gergo

Anzitutto, che cosa è il dialetto! Potremmo definirlo il parente povero della lingua letteraria, la lingua cioè che il popolo di una data regione, provincia o città, si e formata, e che ha, col tempo, arricchita appropriandosi di forme e locuzioni caratteristiche della lingua usata dalle genti ch’ebbero per una ragione o per l’altra, ospiti o dominatori. A questo proposito non si ritiene superflua la constatazione che, secondo noi, il dialetto è una miniera ricchissima di tesori che il tempo inghiottisce di giorno in giorno, e che toglierà per sempre alle nostre indagini, se noi più tarderemo ad esplorarla. Non lasciamoci dunque sorprendere dal fiume del tempo e salviamo dalla colpevole negligenza in cui giace, lo studio fecondo del dialetto. Purtroppo, a proposito di Pavia, una delle ragioni peculiari di facili errori è quella che, come per tanti altri vernacoli italiani di città secondarie, mancano quasi completamente i saggi antichi.
Da noi, il più antico saggio del genere, si limita al 1765 ed è un modesto calendario, ricco di brani dialogati, il Giarlett, al quale si aggiungono pochi altri codificatori del genere ad intervalli abbastanza rilevanti di tempo. Dato poi che il Giarlett, limitandosi ad essere non un completo volume, ma poco più di un opuscolo, non poteva comprendere il dialetto intiero di Pavia, ne tanto meno le diverse variazioni a quel tempo in uso nell’ampio territorio soggetto al dominio di Pavia, lo studioso del vernacolo che volesse risalire al parlar famigliare dei nostri avi non potrebbe trovarvi sufficienti elementi di giudizio.
Tanto più perché, pure nel territorio della stessa provincia il dialetto varia e si imbastardisce per evidenti ragioni di vicinanza. Consideriamo per esempio, il Borgo Ticino di Pavia, che del dialetto pavese possiamo ritenere l’erede legittimo. Ebbene, la parlata si è mantenuta pura soltanto nel Lungo Ticino, il cosidetto Burg a bass, mentre nel Burg in sü, quello che si allunga lungo lo stradone centrale e nelle adiacenze, già il dialetto comincia ad inurbarsi.

Così il Ticino non é più Dséi ma diventa Tesin; pasléi (pesciolino), peslin; mnestra, minestra; spissiè, farmacista, e méi, (io), si tramuta nel più generalizzato mi. Variazioni di questo genere si fanno sempre più sensibili alle varie porte della città fino ad assumere spiccate caratteristiche allorché, alla lontana periferia si manifestano sempre più nettamente le influenze dei dialetti vicini. Così nel vigevanese per i dialetti piemontesi e il milanese; nel vogherese per il piemontese e il ligure, nell’oltrepò per l’emiliano e nel territorio a levante di Pavia, successivamente per il piacentino, il lodigiano e il milanese, man mano che si risale dalla foce al corso superiore del Lambro. È provato che i dialetti si informano più e meglio che alle condizioni politiche, a quelle etnologiche e sociali, così il volgare pavese, il quale oggi per le nostre più intime relazioni con Milano, tende veramente a diventare lombardo nel senso odierno della parola, crebbe e si sviluppò nella Liguria orientale e nell’alta parte dell’Emilia, o, si voglia dire con maggior larghezza, in quel territorio che un dì ebbe nome di Gallia Cisalpina.
Ora, la vita politica vissuta dai pavesi sulla destra del Ticino e del Po anziché nel territorio lombardo propriamente detto, e la conseguente appartenenza del loro dialetto quasi per intero all’Emilia, spiegano quelle differenze caratteristiche, le quali intercorrono fra il vernacola pavese e quello di Milano e degli altri popoli più settentrionali della Lombardia, nel tempo stesso che giustificano la affinità fonetica ed etimologica de! nostro linguaggio coi dialetti di Piacenza e di Parma e della stessa Liguria, nonché con quello di altri popoli situati più oltre verso l’Italia centrale. Circa la costituzione del dialetto pavese, l’analisi vi fa scoprire, naturalmente in proporzioni disparatissime, derivazioni dall’italiano, dal francese, dal tedesco e dallo spagnolo, oltre a sopravvivenze greche, latine, romane e celtiche.
Si fa notare che il dialetto pavese (come del resto altri dialetti dell’Italia settentrionale), a differenza del toscano e della lingua, manca nei verbi del passato remoto che è costantemente sostituito dal passato prossimo. Ad esempio: «Per un punto Martin perse la cappa» - Pr un pont Martin l à pèrs la capa. Altra osservazione in merito al dialetto è che la negazione «non» contrariamente a quanto avviene nella lingua italiana, non è mai preposta ad altra parte del discorso, ma tramutata nella particella negativa «no», la segue. Così: Non ci vedo niente: Gh vadi no! non lo voglio: l a vöi no Questa cosa non la dire: Cla roba chi dila no.

Comunque, le fonti del dialetto pavese vanno ricercate, come s’è detto, nelle lingue dei popoli che furono i primi abitatori della nostra regione o che successivamente la dominarono. Molti di questi etimi, ripresi dal dizionario Comasco- Italiano di Pietro Moretti, sono stati citati dal Madini nella sua opera «I busecconi» fonte utilissima di consultazione per il confronto coi più noti vocabolari pavesi. (Vedi: P. Madini: I busecconi – note di folclore lombardo - Milano, 1930; R Manfredi: Dizionario pavese italiano - Pavia, 1874; C. Gambini: Vocabolario pavese-italiano Pavia, 1850; A: Annovazzi: Nuovo vocabolario pavese-italiano - Pavia, 1934). Custode geloso del proprio dialetto è il popolo, e specie il popolo minuto, il quale, pur inconsciamente tende a conservare la purità della parlata senza contaminarla con smancerie forestiere. Mè padar, mè madar, mè nona, mè nonu, sono le prime parole dei bambini del popolo; quanto più vicine all’italiano padre e madre, al latino pater e mater che non papà e mama, papà grand e mama granda di troppo evidente sapore d’oltralpe!
Una cosa ben differente dal dialetto è invece il gergo, mascheratura della lingua parlata, o meglio il linguaggio normale espresso con locuzioni convenzionali allo scopo di essere intesi soltanto in una ristretta schiera di adepti. Sono gergo tutte le parole con le quali gli artigiani contraddistinguono i loro arnesi e il loro sistema di lavoro, gergo confessabile questo, mentre v’è quello più oscuro, nato nei bassifondi e quindi, ragionevolmente meno noto. Non è dunque possibile una profonda disamina del gergo, linguaggio tutt’altro che elevato, non certamente nato per esprimere concetti profondi, ma soltanto per avere valore indicativo negli argomenti più semplici ma anche più scabrosi.

Valga, comunque, qualche esempio: le espressioni gaf, fratelli branca, andà in boita, o in buiusa, o fala in tal boiòlo, a fa dla sgaiusa hanno tutte un riferimento al codice, stando a significare gli agenti di P. S.; i Carabinieri, e il carcere con il relativo primordiale luogo di decenza e la dieta razionata. Per burlandòt e patüschi si intendano gli agenti daziari, i caplon sono i vigili urbani per quanto da tempo abbiano abbandonato il caratteristico cappello a cilindro per il più estetico elmetto, l flàmbar è la casa di piacere, scàbi il vino se di buona qualità, altrimenti, se scadente diventa pavaràssa, la grima è l’amante, il ruchetè il mezzano di amore. Da brosmo, il naturale centro di gravità del corpo umano e sinonimo di fortuna per chi ne ha abbondanza, è derivata la locuzione vèss imbrusmà, cioè protetto dalla buana sorte, e così da a scroch, che vuol dire a sbafo, è venuta la forma diretta vèss scroch, essere scaltro, nel senso che un furbacchione riesce sempre a cavarsela alle spalle del prossimo. Rude ed oscuro, il gergo, ripetiamo, non può essere compreso che dagli iniziati, ragione per cui riteniamo far cosa gradita e rispettosa al lettore lasciarlo avvolto nel pudore del mistero.